Al Teatro Garibaldi non ci sono barriere. Il palco è la naturale prosecuzione del pavimento della platea, soltanto il legno che lo ricopre crea un confine embrionale, appena un suggerimento. Non ci sono nemmeno ringhiere nei palchi, con grande disdoro degli ossessionati della sicurezza. In queste settimane al Teatro Garibaldi non c’è nemmeno una netta distinzione fra proposta e fruizione. Gli operatori dello spettacolo che con un fermo colpo di mano hanno deciso di restituire questo spazio alla città e alla cittadinanza ce lo ricordano mentre ci accomodiamo per terra, al bordo di un limite immaginario tracciato con il nastro adesivo. Ed è questo nastro adesivo che mi precipita nello spirito di Wardrobe, la sfilata-spettacolo-performance organizzata da Cristina Esposito. Questo limite immaginario rende complici il pubblico e coloro che stanno sul palco, li rende rappresentatori e rappresentati della stessa realtà.
Prima che si apra il sipario inesistente alcuni manichini fin troppo reali sono già in scena, le modelle che Cristina ha voluto sistemare in tableaux vivant nei palchi centrali dei primi due ordini, accomodate in scenari minimali che mi fanno subito pensare a Cariatidi degli anni ’60, portatrici di grazia immobili, assopite davanti a specchi e telefoni. Donne di mezzo secolo fa, tardano ad animarsi. La luce si spegne e dal palco comincia ad arrivare la musica di Mario Bajardi e Sergio Algozzino, che crea spazi liquidi e verdi di ampiezza illuminante, dandomi la sensazione di camminare su una moquette di alghe soffici.
Quando dai paraventi escono le danzatrici la stasi si frammenta. Sarebbe facile e noioso paragonarle a fiamme, anche se il rosso di alcuni dei vestiti è esattamente quello di una fiamma aranciata. So fare meglio di così. Sono bambole, invece, Coppelie meccaniche che spasimano di vita, e finalmente il senso di tutto questo mi appare chiaro. Da una parte donne immobili in abiti da sera, dall’altra bambole fin troppo vive che man mano che danzano vengono a minacciare continuamente il nostro spazio di pubblico, il confine immaginario fra platea e palco. Cristina ci sta raccontando la storia di una rivoluzione, di reggiseni bruciati, libertà conquistate, voto, lavoro, indipendenza. Ci racconta la storia della fatica che ogni donna fa giornalmente per mantenere il suo spazio di femminilità in un mondo che ci vorrebbe sempre più assimilate a macchine di produzione dal progetto inevitabilmente maschile.
I vestiti sono belli, intendiamoci, sono bellissimi, le linee sono fluide, i colori (bianco, nero e rosso ruggine) sono basilari e d’effetto, l’ispirazione viene dritta dagli anni ’60 più optical, e in parecchi degli abiti dimostra di avere imparato splendidamente la lezione della sartoria giapponese; finalmente qualcuno al mondo in grado di usare gli obi e le maniche da kimono senza che diventino citazionismo sterile, dimostrando di non avere imparato a pappagallo ma di avere metabolizzato davvero. Io però non sono una giornalista di moda e la performance nella sua completezza è stata ben più che una sfilata. Era un racconto, la presa di posizione di una giovane donna intorno ai trent’anni che ci ricorda che siamo anche il prodotto della Storia, il risultato di quell’unica donna su dieci che negli anni ’60 lavorava invece di guardarsi allo specchio, telefonare da una camera da letto o progettare le vacanze e le serate a teatro.
Quando tutto finisce e le luci si sono riaccese è il sorriso di Cristina a darmi ancora una volta la misura di quello che voglio fare con questo blog: è un sorriso finalmente rilassato, da debuttante. E’ il sorriso che una stilista di talento come Cristina Esposito dovrebbe avere da molti anni ormai, a giudicare dal talento che ha (e in quanto femmina e scrittore se dico che un vestito è bello sarà meglio che mi crediate). A trent’anni dovrebbe essere una veterana delle passerelle, dovrebbe essere una stilista affermata, produttiva e invece è una debuttante o quasi, e questo è francamente ridicolo. Ah, ma la settimana prossima la intervisto, promesso, e parleremo a lungo di questa cosa.
(Foto di Nicoletta Fersini)