Nell’ultimo post ho sparato a zero su tutto e su tutti; era un buon modo per raccogliere la vostra attenzione. Ora finalmente, alla luce dei primi commenti, posso cominciare un dialogo con voi lettori e forse interlocutori, e contestualmente darmi una calmata e dare un po’ di spiegazioni che credo siano dovute.
Questo blog non nasce per essere lo sfogo adolescenziale fuori tempo di una persona soltanto, ma per essere realmente il documento di una generazione. Si è parlato un sacco di noi quando eravamo adolescenti e tutti si chiedevano cosa avremmo combinato. Si è parlato un sacco di noi anche quando avevamo una ventina d’anni; diventati da poco elettori tutti si interessavano a noi e al nostro voto, promettendoci lavoro, futuro, aria pulita e birra. Oggi abbiamo l’energia e la voglia di fare un sacco di cose: far tardi la sera, sbronzarci, cambiare il mondo e non darci per vinti, ma ancora spesso non riusciamo a trovare una collocazione. Siamo ancora giovani, ma nessuno più parla di noi. Giovane rischia di diventare sinonimo di inadatto. Quand’è che si smette di essere giovani e si diventa falliti e disillusi? E il mondo, o l’Italia o Palermo, si possono permettere un’intera generazione di disillusi falliti?
Quel che dice Cristiano a proposito degli errori insiti nelle categorizzazioni compatte è verissimo da un punto di vista strettamente teorico, perchè ognuno di noi ha una storia differente. Ed è interamente possibile che la realtà che vivo io sia una realtà esclusivamente locale. Quando però sento tante persone soffrire dello stesso senso di inadeguatezza e di impantanamento, allora qualche dubbio che sia un sentimento condiviso se non generale mi viene. Ed è stato proprio questo sentimento a spingermi a parlare, anche alzando la voce, se necessario.
Di nuovo, questo non significa che The Book of Novo sarà un blog di lamentele e geremiadi; parlerò e lo farò volentieri di tutti i progetti portati a termine e di tutti i sogni avveratisi. Parlerò con un sacco di gente diversa, spero; sicuramente parlerò con tutti quelli che hanno voglia di parlare con me. E questo ci porta direttamente alla questione del metodo.
L’idea è di ficcarci dentro un sacco di interviste a miei coetanei in giro per l’Italia, prevalentemente artisti o creativi, e chiedere dove sono in questo momento e cosa hanno fatto della loro arte. Parlerò anche con quelli che sono i nostri fratelli maggiori, i quarantenni cresciuti durante gli anni ’80, e con i nostri genitori. Di tanto in tanto parlerò anche di me, di quello che mi accade, del punto in cui mi sento io, sperando di non tediarvi inutilmente. L’ultima variante è che sia io a parlare delle persone e degli avvenimenti. Non interviste dunque, ma racconti; sono pur sempre una parolaia.
Da qualche giorno, lo ammetto, mi è venuta l’idea di renderlo un progetto persino più sociale, cercando la collaborazione di altre persone che stimo per aggiugnere coralità e profondità all’idea di base e tenendo per me un ruolo più marginale di organizzazione e di regia. Mentre ci penso pensateci anche voi. Vi piacerebbe di più o di meno?